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Sabrina Leonelli

IL GUSCIO SOTTILE DELLA NOTTE

IL GUSCIO SOTTILE DELLA NOTTE

Anni Ottanta, San Donato, quartiere popolare di Bologna. Tempi complicati per i giovani: un fiume di eroina si riversa nelle loro vite, impastandosi con l’amicizia, l’amore, la speranza e quella faticosa corsa a ostacoli che è diventare adulti. Giammarco, affascinante diciassettenne romagnolo, trascorre l’estate a Bologna dal cugino Sergio e conosce la sua compagnia di amici. Cristiana che ne fa parte, se ne innamora. Ma maneggiare i sentimenti a quell’età non è facile e le insidie sono dietro l’angolo, anche quelle più pericolose. Dopo un brillante esordio, la relazione che nasce tra loro si incrina e si scoprono entrambi inesperti per arginare la deriva, e quando Scintilla, timida e intrigante ragazza albanese, irrompe nelle loro vite la situazione precipita.
Ma una bella unione di amici può rivelarsi una squadra vincente, anche quando l’eroina sembra farla da padrona e una miscela - come quella dei loro motorini - di improvvisazione, intuito e fortuna potranno salvare anche le anime più fragili.
Perché è una fame d’infinito quella che porta a “farsi” e per smettere vanno costruiti mondi alternativi, convivendo con l’intrinseca inquietudine che è in ognuno di noi.
Il cambiamento è una questione di vita e di morte. E molto spesso d’amore.

ROMANZO TERZO CLASSIFICATO A R come ROMANCE 2022

Leggi il primo capitolo

1
Estate 1983
LE DISTESE AZZURRE E LE VERDI TERRE

Vent’anni e il vecchio mondo ti coinvolge, 
nel suo infinito gioco di pazienza, 
se smusserai il tuo angolo che sporge, 
sarai incastrato senza resistenza, 
vent’anni prima prova di esperienza.*

Non mi era mai piaciuto rincasare da sola quando ormai era buio da ore.
C’ero nata in quel quartiere, ma sapevo che non faceva sconti e, anche se ero del posto, qualche balordo poteva sempre incappare sulla mia strada. Di solito era Andrea che mi accompagnava a casa con il suo Ciao. Abitava a due isolati da me e io ero sufficientemente magra per dividere con lui il sellino. 
Non mi ero mai chiesta se gli piacevo, notavo il suo indugiare quando smontavo dal motorino per salire in casa. Sembrava sempre sul punto di dirmi qualcosa, o di avvicinarsi; a volte avevo avuto l’impressione che se mi fossi fermata un istante di più si sarebbe allungato per baciarmi, ma nel dubbio ero più veloce di lui e sgaiattolavo oltre il cancello per mettere una buona distanza tra noi ed evitare situazioni imbarazzanti.
Quella sera però quando mi aveva detto che rincasava, offrendomi il solito passaggio, avevo tergiversato perché ero stata rapita dal cugino di Sergio che mi aveva letteralmente affascinata.
«Ehi, ragazzi, vi presento Giammarco.» Sergio era un tipo brillante e molto simpatico, quello che in compagnia ti tira sempre su di morale e ha la battuta pronta per farti ridere. E l’annuncio che suo cugino si sarebbe fermato tutta estate da lui perché i suoi in Romagna stavano ristrutturando casa, e lo avevano quindi spedito a fine scuola dagli zii, era stato così enfatico e celebrativo, che sembrava ci stesse presentando il re in persona e chissà se fu quel biglietto da visita così pomposo a farmelo piacere.
Credo di no, non ero così suscettibile a etichette e lustrini; era invece lampante il suo fascino: sorriso scintillante, stretta di mano, forte e calda, a ognuno di noi. Sta di fatto che quella sera di scollarmi dal muretto per fare ritorno a casa con Andrea non se ne parlava proprio.
Simili novità non capitavano tutti i giorni, non che ci si annoiasse assieme, tutt’altro: eravamo un bel gruppo, affiatato ed eterogeneo e trovavamo sempre qualcosa di carino da fare, anche solo starcene mollemente sdraiati tra il muretto e il prato in cui eravamo soliti incontrarci, di fronte alla baracchina dei gelati di via Ristori, che raggiungevamo attraversando la strada di alberi e poco traffico, quando avevamo voglia di un Cof per rinfrescarci, di un frullato per saziarci e coccolarci, di un gelato per soddisfare il piacere di zuccheri vivi e corroboranti, e tutto questo bastava a dare a ognuno di noi la voglia di ritrovarci il giorno dopo.
Eppure Giamma, come lo aveva da subito presentato Sergio, era stata una cometa nel nostro cielo già striato di stelle e ci aveva offerto una luce nuova.
Non parlava molto, almeno all’inizio, ma ascoltava con interesse e annuiva, mettendo tutti a proprio agio, era sempre partecipe e discreto. Credo che ognuno di noi si fosse sentito presto accolto e apprezzato, almeno questa era stata la mia impressione, perché i suoi occhi sembravano dirti: mi piaci, la penso come te! E questo era molto gratificante e credo sia stato ciò che ce lo ha fatto piacere immediatamente. Aveva una gentilezza che nel nostro abituale modo di porci lo distingueva; non che fossimo più rozzi, ma la sua eleganza nel muoversi e parlare era unica.
Più alto di me, e su questo non ci voleva molto, quando era stato il momento di presentarsi, si era abbassato come se volesse abbracciarmi; non solo mi aveva colto un grande imbarazzo, ma avevo avuto l’impressione di conoscerlo da sempre, come se fosse stato uno di noi da lungo tempo e di conseguenza, in una frazione di secondo, mi convinsi di non poterne più fare a meno.
Andrea il mio no lo aveva vissuto male, me ne ero proprio accorta e questo mi aveva suscitato un immediato fastidio, perché temevo che il suo manifesto disappunto portasse Giammarco a farsi idee strane su di noi.
Quando si era messo a pedalare per accendere il motorino avevo tirato un sospiro di sollievo.
Certo che neanche io ero fatta bene e me ne rendevo conto, in fondo lui era stato sempre molto gentile con me e ogni sera si premurava di farmi arrivare a casa sana e salva. E io cosa facevo? Mi innervosivo.
Feci spallucce, pensando di godermi gli ultimi sprazzi della serata; briciole di tempo esiguo perché poco dopo ero già lungo la via di casa che correvo e mi guardavo attorno per proteggermi da eventuali insidie.
A casa c’ero arrivata, ma per tutta la notte non avevo chiuso occhio al pensiero di Giammarco; era come se avesse spalancato una finestra da cui entravano sferzate di aria fresca: pensarlo mi suscitava fitte pazzesche alla pancia, come quando si trattiene la pipì a lungo. Tutte le volte, l’emozione mi faceva quell’effetto, che era poi quello di dovere scappare in bagno. Per fortuna non mi capitava spesso.
In trepidante attesa, avevo fatto passare il tempo come meglio ero riuscita per giungere al momento di rivederlo e quando questo era accaduto avevo sentito dentro di me una grande gioia, come se fossi in connessione con tutte le cose più belle che mi circondavano: alberi, fiori, persone, oggetti, edifici, anche i più degradati; in piena armonia, persino con il mio angusto quartiere al quale, nonostante non se la passasse un granché bene, ero molto legata. Mi sfrigolava la domanda di cosa mi fosse preso, io che tra tutte le ragazze della compagnia ero quella un po’ meno avvezza a romanticismi e mi trovavo sempre molto bene con la semplicità maschile. Spesso restavo a parlare con i ragazzi o ad ascoltarli se non avevo argomenti, quando dissertavano di motori, calcio, schedine del Totocalcio e Formula Uno, mentre le femmine si perdevano ore a commentare vicende talmente sciocche che cominciavo a sbadigliare alla prima frase e dormivo già a fine discorso quando, trovandomi annoiata e taciturna, chiedevano la mia opinione. Che figo quel tipo, che maschio quell’altro; quello mi ha guardata, il tizio non mi ha fumata, oppure si intrippavano con le scaramucce tra compagne e lì scoppiavano le ire più funeste, contestazioni per le dinamiche più varie e inutili, che erano appunto: perché lei ha detto e allora io ho risposto, ma poi lei ha fatto e io quindi ho fatto, ma se lei o lui non avessero detto, io non avrei detto, e se mia nonna avesse avuto le ruote...
Ma nonostante mi fossi sempre smarcata da queste quisquilie perditempo, non ero stata capace di prendere le distanze dal tempo che mi separava da Giammarco, riducendomi a ingranaggio di un ossessivo conteggio di ore che mi separavano dai nostri incontri sul muretto, perché avevo finito per non contemplare altro.
Imparai a essere guardinga come un cane segugio: osservavo vigile i suoi movimenti, specie quelli oculari per cogliere chi potesse interessarlo tra la platea femminile. Carolina era così schiva di suo che non mi preoccupava granché, Letizia era decisamente la più carina del gruppo, con quelle efelidi sul viso e gli occhi verdi da cerbiatta, ma era anche la più secchia, arrivava sempre per ultima e rientrava per prima perché doveva ripassare. Nessuno capiva l’urgenza visto che la scuola era appena finita, ma nessuno osava chiederle niente, perché sembrava sempre che avesse una interrogazione l’indomani, pur avendo tutti noi certezza che anche la sua scuola fosse chiusa per le vacanze estive. Mi preoccupò solo il pensiero che anche Giamma fosse un appassionato studioso, nel qual caso Letizia avrebbe certamente acceso i radar su di lui, visto che i più gnucchi del gruppo, compreso un paio di bocciati, Antonio e Gabriele, non venivano minimamente considerati da lei. Diciamo che era quella un po’ più snob, non so se c’entrasse il fatto che era una dei pochi tra noi che non abitava in una casa popolare, neanch’io, ma quasi tutti gli altri sì, e si diceva che i suoi genitori provenissero dalla zona dei colli e avessero la puzza sotto il naso, che dalle nostre parti era una cosa che non si poteva minimamente accettare: non era proprio contemplato nel nostro Dna da strada. E come mai fossero finiti lì, dalle stelle alle stalle non era dato saperlo. Letizia cambiava sempre discorso quando le chiedevamo come mai si fossero trasferiti dal quartiere dei fighetti a quello degli sfigati. La nomea a Bologna per noi era quella.
Che poi fossimo orgogliosi di quella attribuzione era un’altra cosa. E lo saremmo stati per tutta la vita: era la solita questione di geni, ci saremmo continuati a dire convinti di avere l’estro e l’astuzia infusi in noi come imprinting del luogo.
Il padre di Letizia era un dentista, la madre commessa in una bella profumeria del centro e poi c’era il fratellino che doveva avere un paio d’anni.
«Io da questo postaccio voglio andarmene prima possibile!», ci diceva quando qualcuno osava prenderla in giro sul fatto che passava troppe ore della sua vita sui libri.
«E quindi?», le dicevamo tutti in coro.
«E quindi se studio avrò la possibilità di andarmene prima.»
Nessuno osava chiederle perché, dove sarebbe andata e soprattutto cosa c’era di male ad abitare in San Donato, in fondo c’era tutto quello che serviva per essere felici.
A dire il vero, dopo avere conosciuto Giammarco avevo messo in discussione quell’affermazione e mi ero chiesta come avevo potuto trovare interesse in quel posto e in quello che facevo prima del suo arrivo.
In contrasto con Letizia c’era Gina, scartolata, mal vestita con i capelli da rasta aggrovigliati attorno a un paio di matite che si ficcava in testa. Lei sì che veniva da una casa popolare, affacciata sul parco Magazzari, ma bella fatiscente e la sua famiglia doveva essere altrettanto impegnativa.
Ma le volevamo tutti molto bene, sensibili ai problemi che si trovava in casa: il padre senza lavoro e perennemente ubriaco, la madre mezza matta e quattro o cinque fratelli più piccoli che spettava a lei accudire. Era buona e si faceva in quattro per aiutarti. E contrariamente a quello che si poteva pensare era persino brava a scuola, nonostante non avesse certo il tempo di Letizia per studiare, con tutto quello che doveva fare in casa; questo aveva contribuito alla grande stima e rispetto che avevamo per lei.
Poi c’erano gli altri del gruppo, ognuno fatto a suo modo: Antonio, aveva annunciato che dopo il fallimento a scuola gliela avrebbe data su, andando a lavorare in officina da suo padre; di lavoretti in famiglia per avere due soldi in tasca ne faceva già da tempo e quello che lo contraddistingueva erano le unghie sempre nere dei meccanici che possono detergersi anche con la soda caustica ma inutilmente. Ci raggiungeva al muretto sempre con la sua tuta blu, unta da lavoro e lo avevamo soprannominato Super Mario, che nessuno di noi in un primo tempo conosceva, se non Enrico, il nostro guru, esperto delle novità oltre oceano in procinto di sbarcare in Italia.
Gabriele, l’altro bocciato faceva il professionale in via Sebastiano Serlio e tutti gli avevamo detto che venire bocciati in quella scuola voleva proprio dire non avere fatto una mazza tutto l’anno, lui rideva ma essendo più audace di Antonio ci aveva preannunciato con enfasi che avrebbe ripetuto e superato egregiamente il prossimo anno scolastico, dimostrando a tutti le sue capacità. Dubitavamo, ma avevamo annuito per dargli fiducia.
Adriano aveva già il suo negozio di cornici, assieme al padre Alcide, un affermato artista di cui andavamo molto fieri perché ci sembrava, e così era, che desse lustro al nostro quartiere; con i suoi lunghi capelli bianchi, un po’ arruffati alla Einstein e larghi vestiti altrettanto candidi da maestro indiano che gli davano proprio l’aria di un santone. E poi di arte da noi ne circolava ben poca e quindi Alcide era ancora più speciale. Adriano aveva i suoi stessi capelli, ma scuri e lo chiamavamo il Toro, non so bene da cosa derivasse e se c’entrasse la capigliatura. Lui respirava l’ispirazione creativa che si trovava in casa, ma non aveva ancora scelto il modo con cui rappresentare quell’eredità. Bruno era il più grande tra noi, anche lui lavorava nell’azienda meccanica del padre e nonostante la sua mole consistente era un atleta di Karate: ci siamo sempre chiesti come facesse, ma sul tappeto aveva una agilità da paura e le numerose medaglie vinte smentivano i nostri dubbi. Debora, la stralunata del gruppo, sempre sopra, sotto o in mezzo alle righe, ma mai su di esse, da domandarci se non facesse uso di sostanze a nostra insaputa; zero concretezza, zero ragionamenti deduttivi, dovevamo sempre ripeterle le cose, ma era buffa e a suo modo simpatica proprio perché era fatta così. Claudio sempre allegro, positivo e con la passione per la musica, frequentava il Conservatorio di Bologna, altro motivo per noi di orgoglio, ci piaceva l’idea di essere amici di un musicista, poi quando aveva tentato di spiegarmi come si leggesse uno spartito ci aveva presto rinunciato, ma per osmosi mi beavo del suo talento. E per noi tutti era il Maestro.
Marco era il nostro dj, faceva già serate e pomeriggi nei locali a mettere musica, scratchava di brutto e ci incantava con le sue mani sui trentatré giri, plasmando la sinfonia attraverso il mixer e i fader che mandavano in dissolvenza i brani, mischiandoli tra loro; dove si concludeva uno partiva l’altro, dentro una ipnotica magia che finiva sempre per rapirci e metterci fotta in corpo. Con lui tanto Funky che era la colonna sonora delle nostre giornate, almeno per i primi tempi, prima che Giamma ci introducesse ad altro.
Poi c’era Enrico che veniva a trovarci saltuariamente; abitava al quartiere Fossolo e lo avevamo subito denominato Il Prof perché era affamato di storia e seguiva con assillo le vicende terroristiche di quegli anni in Italia, riportandocele con dovizia di particolari e argomentazioni che stentavamo sempre un po’ a comprendere, ma lui era mosso da una grande passione e aveva tanta pazienza con noi. E infatti avrebbe finito, qualche anno dopo, per entrare in politica, noi anche se più ignoranti ce lo eravamo detti da subito, ancor prima, secondo me, che fosse chiara a lui stesso quella prospettiva. 
In fondo, essere cresciuti prima nei cortili, poi sui muretti, nei bar e nelle gelaterie fin da bambini, ci aveva istillato quel naturale intuito che sapevamo maneggiare per districarci ogni giorno tra il variegato materiale umano che avevamo attorno. Pensavamo bastasse manovrarlo in potenza per esserci poi utile a svicolare le insidie.
Abitare in San Donato donava una carta d’identità di resistenza e duttilità alle intemperie, anche quelle più massacranti della vita.
Di Carolina e Debora non saprei dire molto, erano quelle che i germi del quartiere avevano forse meno intaccato. Né carne né pesce, diceva sempre mia nonna. Non di loro, che non conosceva, ma usavo la sua lapalissiana citazione per definirle.
La combriccola era più o meno composta da questi elementi, a cui si aggiungevano a volte altri ragazzi e ragazze, ma il gruppo storico manteneva le sue peculiarità e quella leggerezza soffice e maldestra dei nostri anni, unici perché inglobati in quelli mitici e assoluti, targati Ottanta.
Otto il segno dell’infinito, zero il segno della completezza; ci piaceva bazzicarci dentro e sentivamo un fermento che non sapevamo ancora afferrare e comprendere, ma capivamo di appartenere a una storia che avrebbe avuto qualcosa da dire, nel bene o nel male, e come protagonisti ne andavamo fieri.
«Siamo matti…», ci piaceva dirci.
«No, solo stupidi!»
«Entrambe le cose…»
«Siamo i più meglio…»
«Siamo stelle del firmamento.»
«Sì, dai facciamoci del male e carichiamoci queste molle!»
E forse le cose sarebbero andate in maniera diversa, senza strappi o troppa confusione se ci fossimo mantenuti dentro il corso piatto e lineare della nostra adolescenza. Se anche Gina, dopo Sergio, non avesse deciso un bel giorno di portarsi appresso una parente, per la quale cercò di spiegarci il collegamento con la sua famiglia, ma che risultò troppo articolato e nessuno ci capì niente. Forse, se solo quella parente di nome Scintilla - che nome, mi ero detta, turbata dalla sua avvenenza, quindi immediatamente gelosa di Giammarco, da mettermi subito a scrutare segnali di interessamento - non avesse finito per frequentare la nostra compagnia.
«Ciao a tutti, sono Scintilla vengo dall’Albania», avevamo presto scoperto che erano tra le poche parole in italiano che conosceva.
Era una scricciolina minuta e dalle forme perfette, un seno prosperoso, quello che mancava con rammarico a me e un viso di porcellana con lineamenti da bambola. Avrei voluto che si fidanzasse immediatamente con Andrea per farli fuori tutti e due. Ma lei non pareva interessata né a lui e, a dire il vero, nemmeno agli altri e questo mi consolò. 

Specifiche

  • Genere: Romantico, Temi sociali
  • Collana: R come Romance
  • Formato: 14x20 cm
  • Pagine: 150
  • ISBN: 978-88-9347-243-2
  • Prezzo copertina:: 14
  • Esiste la versione ebook?: no

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