Skip to main content
Saverio Merzliak

L'eclissi di San Sabba

L'eclissi di San Sabba

Un romanzo storico-poliziesco, basato sulla vera storia della Risiera di San Sabba, scritto in uno stile bianco/nero dai forti contrasti, i cui tasselli si compongono pagina dopo pagina travolgendo il lettore.Il periodo storico compreso tra l’8 settembre 1943 e i giorni della liberazione nel 1945, e il decennio seguente del Governo Militare Alleato a Trieste, sono sovente interpretati come specificità di questa città, per i fatti drammatici e non di rado del tutto anomali nel panorama nazionale, che vi si sono svolti. La comprensione di quel periodo e di quei fatti risiede invece, secondo l’autore, in una dinamica umana e sociale di tipo universale: l’apostasia. Attorno ai fatti della Risiera di San Sabba, unico campo di concentramento e sterminio in Italia, l’apostasia, l’abbandono della “fede”, si è realizzata come fenomeno sociale, anche nella versione che prevede l’accostamento ad una fede diversa, quella del denaro. Il protagonista del romanzo è un poliziotto tedesco, in servizio a Trieste durante l’amministrazione nazista del litorale adriatico, che si stabilirà in città a guerra finita. Attraverso i suoi occhi scorrono atti criminali, meschinità, complicità e indifferenze che nutrono l’apostasia, che egli può vedere perché non ha rinunciato alla memoria, di sé prima di tutto. Dunque, si tratta di dinamiche universali, che si sono riscontrate, si riscontrano e possono riscontrarsi in ogni parte del mondo e in qualsiasi tempo.

Leggi il primo capitolo

Prologo   Trieste 10 marzo 1976 Il presidente del Tribunale di Trieste aveva dato la parola al Pubblico Ministero, che aveva iniziato la sua requisitoria. L’aula era come sospesa in un tempo indefinito, incerto, oscillante tra quella mattina e i giorni non poi così lontani dell’Adriatisches Küstenland. Vi è una frase che uno dei martiri della Risiera, Giuseppe Robusti, ha scritto quasi presago dell’imminente sorte nell’ultima lettera inviata alla fidanzata: «Ormai l’umanità si è abituata a vivere nel sangue». Frase tremenda e rassegnata, dove il verbo abituare sembra indicare un modo d’essere definitivo e senza ritorno. Forse perché oppresso dal peso delle tragedie, singole e collettive, che questo lungo dibattimento ci ha riportato alla mente, ho pensato che fra le tante cose che sono avvenute in questa prima metà del secolo, la più importante, forse, come quella che riassumeva un po’ tutte le altre, era la sconfitta definitiva, il crollo dell’umanesimo, della concezione umanistica della vita, della persona umana nella sua accezione più estetica e individuale. Ho pensato che quando si riduce l’uomo a saponetta, o a paralume, o lo si uccide nelle maniere più efferate e con la generalità più vasta, si ha la dimostrazione che i valori dell’umanità negli ultimi quattromila anni non erano che fumo e che si poteva, se si voleva, dissipare questo fumo al vento, allo stesso modo di quello che usciva dai forni crematori.Ma poi ho inteso meglio la lettera del Robusti, ho letto dove parla con tanta accorata e affettuosa sollecitudine dei propri genitori. Ho letto dove si rivolge alla propria donna con tanta pienezza di vita e con tanta struggente nostalgia: «Mi sento calmo, direi quasi sereno, solo l’anima mi duole di non aver potuto cogliere adeguatamente il fiore della tua giovinezza».Ho letto dove dice con semplicità e compostezza della fraternità e simpatia che si era stabilita tra i reclusi del Coroneo appartenenti a popoli diversi: «Ci siamo ritrovati tutti, stamani, in chiesa, italiani, slavi, americani, russi, tutti uguali dinanzi al cappellano, uomini e donne». E, soprattutto, ho letto commosso dove, chiudendo la lettera, si chiede per due volte: «comprenderanno?». Il Pubblico Ministero aveva fatto una pausa e alzato gli occhi a guardare le facce dei presenti. Il suo sguardo sembrava porre quella domanda ai presenti, ma tra quelli che lo guardavano, alcuni occhi parevano interrogare proprio lui, sembravano chiedersi se lui avesse in effetti compreso.Nell’affollata platea, uno sguardo in particolare gli era giunto diretto negli occhi. Era una persona anziana, i capelli radi, un po’ biondicci e un po’ bianchi, le rughe marcate, le guance scavate. Il Pubblico Ministero lo aveva scrutato per un attimo. Vittima? Parente? Gli passavano per la mente le immagini della vita e della morte nella Risiera che tante volte si era figurate, leggendo i verbali degli interrogatori e delle testimonianze raccolte. Poi si era ripreso e aveva ricominciato la requisitoria. Che cosa vi è di più umano, di più umanistico di quanto si coglie da queste lettere: senso della famiglia, amore per la propria donna, consapevolezza di soffrire insieme con altri uomini, sentendoli fratelli. Desiderio spasmodico che l’umanità comprenda il valore della persona umana, del sacrificio avvertito, della libertà difesa, che non si abitua al sangue, alla strage organizzata, al genocidio. Gli occhi che avevano fissato interrogativi il Pubblico Ministero si strinsero, come per un fastidio, per troppa luce.Karl Netzger abbassò quello sguardo guardandosi le mani che si stringevano a pugno e fu come se tutti attorno a lui sparissero. Nei posti vuoti degli imputati immaginò che vi fossero il Gauleiter Rainer, il generale Globocnik, il comandante della Risiera Oberhauser, il prefetto, il podestà, il direttore delle Assicurazioni, il direttore della Banca e Lambert, che aveva fabbricato il forno, con le mani nere. Rimaneva però una sedia vuota. Netzger immaginò anche di alzarsi e andarsi a sedere su quella sedia. A occhi semichiusi sperò che il Giudice a quel punto gli dicesse: «No, lei no, non è il suo posto!» Poi la visione svanì e si ritrovò circondato dalla gente che assisteva al processo e riprese ad ascoltare la requisitoria. Il teorico del razzismo rompe così in modo radicale con tutto lo storicismo tedesco dell’epoca. Egli arriva a una concezione che Lukacs chiama del “caos etnico”; è falso ritenere che il nazismo non sia stato una costruzione logica e che non avesse degli spunti, come ho detto, ancorché negativi, culturali. Questa concezione del caos etnico è servita a rendere più incisiva l’azione di corruzione e di dominio sulle masse. Questa concezione ha come necessaria conseguenza che ogni cambiamento può essere inteso soltanto come corruzione derivante dalla mescolanza delle razze. Perciò il giudaismo diventa il punto di riferimento costante del nazismo, il punto di riferimento che servirà a fuorviare, a fermare la tensione delle masse, perché sempre di più si allontanino da quello che è l’uso retto della ragione. Hitler e Rosemberg, dice sempre Lukacs, assumono tre principi fondamentali. In primo luogo, come ho detto, il concetto di caos etnico e di lotta contro di esso; in secondo luogo la capacità delle razze di rigenerarsi; in terzo luogo il razzismo come succedaneo della religione adeguata ai tempi. Caos etnico: il socialismo diventa caos etnico, gli stati diventano caos etnico. Di conseguenza quella concezione imperialistica farà sì che possa essere aggredita la Russia, la Francia e altre nazioni. Caos etnico e razzismo, pensò Netzger, sembrano i fondamenti dell’antislavismo in questa città. Ma non era sicuro di aver capito bene e gli provocava non poco fastidio sia il non capire, sia quello che a lui sembrava un inutile sfoggio di erudizione del Pubblico Ministero.Una signora anziana, immobile vicino a lui, gli si era rivolta commentando: «Cosa c’entra la Francia con la Risiera?».«Niente – aveva sussurrato Netzger rassicurante – non c’entra niente». E lei gli aveva sorriso, sembrava effettivamente rassicurata.A Netzger era parso di conoscerla, per un attimo, ma poi aveva abbandonato l’idea: non somigliava a nessuno, oppure a tante altre donne anziane.Poi di colpo ricordò. Rivide la scena come se la stesse vivendo in quel momento.Era andato alla Risiera, chiamato da Oberhauser, che gli voleva parlare. Al piantone aveva chiesto del comandante, a Oberhauser piaceva essere chiamato così, e gli era stata indicata la porta diritta di fronte a lui, a destra del piazzale. Il sole stava calando, i muri alti dell’ex stabilimento di pilatura del riso proiettavano lunghe ombre diagonali sullo sterrato del piazzale e i mattoni parevano di un rosso più acceso del solito. Si fermò di colpo, sentendo grida alterate dietro di sé e, voltandosi, vide un soldato delle SS, certamente ucraino e altrettanto certamente ubriaco, brandire una mazza di ferro, come un nerbo con la testa più grossa tutto di ferro, minacciando un vecchio malconcio, mentre lo spingeva brutalmente verso una porta che si apriva laterale nell’edificio centrale. Poco più in là, alcune donne sembravano attendere che la scena finisse, come se vi fossero drammaticamente abituate, quando tra di loro si divincolò una bambina, una testa di capelli neri riccioluti, chiaramente ebrea, che fece alcuni passi risolutamente e si piazzò davanti all’omone ucraino, a gambe larghe. Avrà avuto sette o otto anni, le gambette magre spuntavano da una gonna troppo lunga e troppo ampia. Netzger vide distintamente lo sguardo della bambina, che cercava gli occhi della SS fissandolo con un’espressione strana: pareva sfidarlo. Fu un attimo. L’omone spalancò gli occhi liquidi da ubriaco e serrò la mascella, roteò la mazza. Netzger chiuse immediatamente gli occhi stringendo le spalle e nel piazzale risuonò un colpo secco, come di legno spezzato. Poi passi di corsa. Riaprì gli occhi e le donne erano chine sulla bambina riversa con la testa orrendamente fracassata, come una bambola rotta, da cui però sgorgava copioso il sangue, mescolandosi alla terra. Una donna si voltò verso di lui, come interrogandolo disperata. Lo aveva guardato dritto negli occhi. Angosciato, non riusciva più a muoversi. Guardava quella mazza insanguinata e lo rincorrevano le immagini che si era figurate sentendo che in Risiera le esecuzioni avvenivano così, con un colpo di mazza.Ora capiva: era la stessa donna, vicino a lui nell’aula del tribunale. «Cosa c’entra la Francia?» gli aveva appena chiesto. Adesso era una vecchia. Anche lui era cambiato e lei non l’aveva certo potuto riconoscere. Erano di nuovo lì entrambi ad assistere, anche questa volta impotenti.Non aveva mai avuto il coraggio di chiedere chi fosse quella bambina, o se una di quelle donne fosse la madre, o altro. Nel corso della sua vita era sempre stato colpito profondamente dagli sguardi vuoti dei genitori cui era morto un figlio. In seguito, l’episodio si insinuò nella sua memoria come un rimorso, forse perché, quando Globocnik glielo aveva chiesto, aveva perfino negato di esservi stato testimone. Immaginava quella bambina inerte riprendere vita, tornare a giocare. L’aveva anche vista in sogno, diventata più grande, mentre andava a scuola chiacchierando per strada con un’amica. Non gli era più uscita dalla mente e, a volte, gli pareva di averla intorno nei luoghi e nei momenti più disparati, per lo più quando era da solo e aveva anche provato a darle un nome.«Niente, non c’entra niente», aveva sussurrato ancora una volta e era tornato ad ascoltare il Pubblico Ministero. Hitler replica: «La brutalità viene rispettata. L’uomo semplice della strada non rispetta nient’altro che la forza brutale e la mancanza di coscienza. Il popolo ha bisogno di essere tenuto in una salutare paura. Esso desidera temere qualcosa, perché ciarlare di brutalità e indignarsi per le torture, le masse le desiderano. Esse desiderano qualcosa che dia loro il brivido del terrore».Questo per quanto attiene al disprezzo dell’attività educativa che il regime usava nei confronti delle masse, diciamo verso il basso. Verso l’alto, la corruzione. Afferma Hitler: «Io do ai miei ogni libertà. Fate quello che volete, ma non lasciatevi cogliere. Abbiamo forse tirato il carretto fuori dal fango per essere mandati a casa a mani vuote?» Naturalmente, questo invito ad arricchirsi ai gerarchi, alla parte importante dello stato tedesco, sottende il desiderio, il pegno di tenerli in pugno. Nascono, come ovvia conseguenza di questo invito, lo spionaggio, la denuncia reciproca. Ognuno è in potere dell’altro e nessuno è più padrone di sé stesso. Questo è, in sostanza, l’effetto dell’invito ad arricchirsi. Quasi non vi è scampo fra la scelta di diventare o carnefici o corrotti, oppure oggetti della barbarie e della tortura. Forse da questi spunti, da queste concezioni hitleriane dell’uomo, nasce quel tipo barbarico di soldato che abbiamo conosciuto, che abbiamo intravisto in questo processo. Nasce da quel tipo di soldato, di cui sono tipici esempi gli imputati Allers e Oberhauser. Oberhauser, il comandante dell’ucraino che uccideva con la mazza di ferro: ma quale soldato barbarico! Netzger si accorse di scuotere il capo. Il giudice sembrava evocare cose che non stavano né in cielo né in terra per chi invece le aveva vissute. L’ucraino, Oberhauser, Globocnik e gli altri erano solo giovani uomini di quaranta anni, già assassini della peggior specie da almeno dieci, di quelli che uccidono chiunque per ambizione o per soldi; questo sì: sulla corruzione quel magistrato aveva perfettamente ragione.«Però rischi di andare fuori strada», pensò Netzger, non senza amarezza. Poi si disse che non aveva senso scaricarsi la coscienza su quel magistrato e che avrebbe dovuto ascoltare la requisitoria per intero e provare a capirne la logica, le conclusioni, le riflessioni, forse anche l’anima.Era lo stesso magistrato che aveva chiuso in fretta, così almeno gli era sembrato, il caso Salinas, il professore morto nell’incendio del suo magazzino-museo della pace e della guerra, due anni prima. Forse aveva ragione lui, perché non c’erano elementi probatori di alcunché.Se pensava a Salinas, gli pareva di vederlo, seduto di fronte a lui sul fusto di un cannoncino nel suo magazzino, mentre gli mostrava con animosità un quaderno.«Questa è la raccolta delle scritte sui muri della Risiera – gli diceva – tu le hai viste, no?».«Qualcuna – gli aveva risposto Netzger – solo qualcuna».«Sai quante storie ci sono in quelle scritte – aveva continuato senza ascoltarlo – è il punto di vista più basso della storia, quella che non è stata scritta da quelli che hanno vinto, come accade sempre, ma da quelli che hanno perso. Perso tutto: la vita, la famiglia, la casa, i mobili, i soldi pagati a Globocnik, a Oberhauser, al soldato ucraino, per tornare liberi, la fiducia nel vicino che li aveva denunciati: un colpo di mazza e poi bruciati. Le proprie ossa e la cenere dei propri corpi buttati in mare allo scalo legnami. L’ultimo viaggio su un carretto, dentro i sacchi, ammassato con un parente, con uno sconosciuto, una bambina, una donna, un vecchio, tutti ossa e cenere».Netzger si sentiva male ogni volta che parlava con il professore. Si sentiva freddo dentro, lo stomaco duro. «Chissà se c’erano anche le anime, in quei sacchi», pensò cercando di allontanare quei ricordi.Si accorse così di aver pensato per due volte in poco tempo alle anime degli altri, quella del giudice e quella delle vittime della Risiera, ma, forse, anche alla propria. L’insolita riflessione se ne trascinò dietro un’altra, come alle volte accade.Quando ha inizio – chiese a sé stesso – quell’assenza di memoria, così utile per nascondere le fondamenta fragili o melmose su cui poggiano a volte le ricchezze e le sicurezze relative, le piccole rendite di posizione, economiche, sociali e a volte anche affettive?Ha inizio – gli sembrò – nel momento in cui si forma quello che sarà l’oggetto stesso del ricordo. Vale a dire nel momento dell’azione o della decisione. Mentre stiamo compiendo quelle azioni o stiamo prendendo determinate decisioni, dentro di noi le intendiamo già modificate nel loro significato reale. In effetti, non si tratta di una rimozione della memoria fatta a posteriori, bensì di un processo che si avvia simultaneamente ai fatti, intriso di giustificazioni e di omissioni.L’operazione non si compie per tutti allo stesso modo, naturalmente. Qualcuno non è interessato a mentire a sé stesso e agli altri o a rimuovere realtà evidenti; altri vorrebbero addirittura essere scoperti mentre lo fanno, per poter tornare indietro. Altri ancora, invece, sentono l’esigenza di rimettere le cose a posto in seguito, anche a distanza di anni. Questi si attivano, correggendo a ritroso quei processi di rimozione che hanno tolto loro parti di memoria divenute nel frattempo essenziali. Per questi è diventato importante potersi ritenere consapevoli e non stupide vittime dell’opinione prevalente, sia vi si aderisca, sia la si contrasti, dato questo che, alle volte, non sembra avere proprio alcuna rilevanza.Intorno a queste considerazioni e in questo stesso modo un po’ confuso, stava riflettendo il maggiore tedesco Karl Netzger, lasciandosi alle spalle il tribunale, imponente e solido come una montagna di pietra grigia su cui erano salite le dee della giustizia ed erano diventate statue, ritte sopra le alte colonne.Netzger percorreva curvo il selciato lucido sotto i portici quadrati del liceo Dante, in preda ad un’angoscia incalzante, come si trovasse a metà di una visita all’inferno, a chiedersi se si trattasse di un incubo o se c’era dentro per davvero. Trent’anni e più dai fatti che erano stati giudicati dentro quel tribunale, gli sembravano passati invano, anche se li ricordava quasi tutti per intero.Camminava abbastanza spedito, come gli consentivano i suoi settanta anni. Le alte volte squadrate del portico, con le colonne come rivestite da guaine bianche di marmo, gli proiettavano la luce serale sulle gambe. Poi  l’ombra, poi di nuovo la luce, ombra, luce, come quando il treno passa lento in certe gallerie. Netzger immaginava di vedersi scorrere veloce verso l’uscita in Piazza Oberdan e, infatti, affrettò il passo, per fermarsi infine al centro dell’aiuola rotonda a levare lo sguardo sulla torre di mattoni di fabbrica, dove un leggero borino faceva sventolare la bandiera italiana. Chiuse gli occhi, ascoltando il rumore del traffico, che progressivamente scemava fino a sparire, in pochi attimi. Senza aprirli, recuperò nella memoria la stessa immagine con la torre, ma la bandiera era un’altra, con la svastica al centro. Ancora mentalmente, a occhi sempre chiusi, ascoltava un forte vociare a lui incomprensibile e al centro della bandiera, che aveva nuovamente cambiato colori, c’era una stella rossa.Fortunatamente era sparita dalla sua mente anche l’immagine con la stella e, mentre si avviava verso casa, a occhi ben aperti, era ricomparso il tricolore italiano.Aspettò che passasse il flusso di automobili e attraversò il viale largo, le rotaie del tram, s’infilò tra i taxi nella via che porta diritti in Piazza Vittorio Veneto, passò svelto di fianco al palazzo della Posta e arrivò alla chiesa luterana, da cui proveniva il suono di un pianoforte.Gli piaceva quella chiesa, per la sua storia. La chiesa evangelica luterana era stata costruita da quella comunità che si era insediata in città da oltre un secolo. Netzger ne apprezzava lo stile neogotico, con i tetti spioventi in lastre di ardesia sopra le navate e l’abside ottagonale. Riteneva che le guglie appuntite che attorniavano il campanile la rendessero quasi sproporzionata, più alta che lunga, ma indubbiamente e stranamente attraente. Così almeno gli sembrava.La locandina sul pesante portone nero annunciava il concerto di una pianista argentina. Netzger entrò e si mise su un banco in fondo alla chiesa. Il suo sguardo venne attratto dalla luce della vetrata in fondo, dietro l’altare. Gli avevano detto che l’aveva realizzata una vetreria di Monaco che conosceva bene, la vetreria artistica Zettler.La pianista stava suonando i notturni di Chopin. I notturni gli sembravano perfetti per il suo stato d’animo. Questo passare quasi involontariamente dalla serenità all’angoscia, attraverso riflessioni progressive, ma con la lentezza e la coerenza della disperazione, gli sembrava incredibilmente perfetto. La melanconia del notturno gli entrò in corpo e lui si lasciò penetrare, come dal freddo. È l’unico modo di vincerlo, il freddo: lasciarlo entrare dentro di sé. Così le note lo aiutarono a rompere l’angoscia, nello stesso modo. Si fece prendere dalla musica, cercò di vedere che faccia avesse la concertista argentina. Gli venne da pensare alla curiosa situazione di sé, tedesco, che da anni viveva nella città che si autodefinisce periferia dell’impero, dai tempi in verità trasfigurati di Maria Teresa, mentre ascoltava una musica che gli suscitava sentimenti mitteleuropei, peraltro interpretata da una pianista latino-americana. In realtà la pianista si chiamava Joanne Alemany, e gli Alemany, in Argentina come in Catalogna, un tempo erano forse i tedeschi, ma poi bastava che venissero da un altro posto, anche abbastanza vicino ed erano tutti chiamati alemanni.Improvviso, come una fitta al costato, forse a causa di quelle note tanto scandite da diventare lancinanti, si presentò il ricordo cupo dei tanti nazisti riparati nel dopoguerra in Argentina e Brasile. Chissà per quale associazione d’idee o per quale corto circuito. Seduto, un po’ ingobbito, riviveva la giornata ormai trascorsa, in cui aveva assistito all’apertura del processo della Risiera, finché riuscì a non pensare più a niente, assopendosi.Si svegliò di soprassalto al rumore dei tacchi che battevano sui banchi di legno della chiesa, mentre tutti si alzavano avviandosi verso l’uscita. Decise di aspettare che uscissero e si rimise a pensare al processo e a quello che aveva capito dalle notizie di stampa negli ultimi mesi. Il giudice istruttore si era intestardito nel voler fare il processo, mentre il presidente del Tribunale aveva tentato di spostare il tutto alla giustizia militare. Alla fine aveva vinto il giudice istruttore, ma era stato costretto a limitare il terreno dell’accusa ai “semplici” omicidi compiuti nella Risiera sui civili. Già i partigiani “rischiavano” per la giustizia di essere trattati da vittime militari.In fondo, il grande alibi dello stato di guerra era stato tolto di mezzo dalla vicenda della Risiera e questo rifletteva esattamente la sua opinione su quei fatti: la guerra era un pretesto, lo era stata per tanti e forse anche per lui stesso, in un certo senso. Un enorme, tragico, pretesto.  

Specifiche

  • Genere: Romanzo
  • Formato: 135x210
  • Pagine: 144
  • ISBN: 9788897320500
  • Prezzo copertina:: 10.00
  • Esiste la versione ebook?: no

Link per l'acquisto del libro dall'editore